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Bullismo

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Il bullismo consiste in comportamenti aggressivi ripetitivi perpetrati da una o più persone nei confronti di una vittima incapace di difendersi. 

Cosa si intende per bullismo

Con il termine bullismo s’intende definire un comportamento aggressivo ripetitivo nei confronti di chi non è in grado di difendersi. Solitamente, i ruoli del bullismo sono ben definiti: da una parte c’è il bullo, colui che attua dei comportamenti violenti fisicamente e/o psicologicamente e dall’altra parte la vittima, colui che invece subisce tali atteggiamenti. La sofferenza psicologica e l’esclusione sociale sono sperimentate di sovente da bambini che, senza sceglierlo, si ritrovano a vestire il ruolo della vittima subendo ripetute umiliazioni da coloro che invece ricoprono il ruolo di bullo.

Le principali caratteristiche che permettono di definire un episodio con l’etichetta “bullismo” sono l’intenzionalità del comportamento aggressivo agito, la sistematicità delle azioni aggressive fino a divenire persecutorie (non basta un episodio perché vi sia bullismo) e l’asimmetria di potere tra vittima e persecutore.

Bullismo a scuola

Recentemente è stato diffuso uno studio della Federazione Italiana Società di Psicologia (Fisp), in cui è stato affrontato il possibile ruolo dello psicologo per quanto riguarda il bullismo a scuola. Secondo indagini Istat sui comportamenti offensivi e violenti tra i giovanissimi, nel 2014, più del 50% degli 11/17enni è stata vittima di un episodio offensivo, irrispettoso e/o violento da parte di coetanei.
I comportamenti violenti che caratterizzano il bullismo sono i seguenti:
– Offese, parolacce e insulti;
– Derisione per l’aspetto fisico o per il modo di parlare;
– Diffamazione;
– Esclusione per le proprie opinioni;
– Aggressioni fisiche.

Per gli psicologi si tratta di una vera e propria emergenza, che può essere contrastata a partire dall’intervento a scuola.

La figura dello psicologo all’interno dei contesti scolastici appare fondamentale, per individuare in maniera tempestiva i disagi prima che possano favorire lo sviluppo di sindromi psicologiche

 dice Mario Sellini, segretario generale di AUPI, l’associazione unitaria degli psicologi italiani.

Sarebbe necessaria la predisposizione di un programma di prevenzione del bullismo a scuola, attraverso la valutazione del disagio giovanile e dei fattori di rischio individuali, familiari e ambientali, che potrebbero generare comportamenti violenti. L’introduzione della figura dello psicologo nel contesto scolastico, potrebbe contribuire alla promozione delle risorse e delle potenzialità dei ragazzi in una fase delicata come quella dello sviluppo.

Cyberbullismo

Il cyberbullismo è definito come un atto aggressivo, intenzionale condotto da un individuo o un gruppo usando varie forme di contatto elettronico, ripetuto nel tempo contro una vittima che non può facilmente difendersi (Smith, P. K., del Barrio, C., & Tokunaga, R. S., 2013). Esso ha però delle caratteristiche identificative proprie: il bullo può mantenere nella rete l’anonimato, ha un pubblico più vasto, ossia il Web, e può controllare le informazioni personali della sua vittima.

La vittima al contrario, può avere delle difficoltà a scollegarsi dall’ambiente informatico, non sempre ha la possibilità di vedere il volto del suo aggressore, e può avere una scarsa conoscenza circa i rischi insiti nella condivisione delle informazioni personali su Internet (Casas, Del Rey, Ortega-Ruiz, 2013; Smith, P. K., del Barrio, C., & Tokunaga, R. S., 2013. Definitions of bullying and cyberbullying: How useful are the terms. Principles of cyberbullying research: Definitions, measures and methodology, 26-45; Casas, J. A., Del Rey, R., & Ortega-Ruiz, R. (2013). Bullying and cyberbullying: Convergent and divergent predictor variables. Computers in Human Behavior, 29(3), 580-587).

Proprio per queste maggiori difficoltà da parte della vittima, talvolta essa può arrivare a compiere atti davvero tragici. Una recente ricerca ha cercato di studiare meglio il fenomeno del suicidio adolescenziale e se effettivamente l’associazione cyberbullismo – suicidio adolescenziale sia statisticamente significativa quanto si crede. Gli autori dello studio hanno così concluso che il cyberbullismo è un fattore presente in alcuni suicidi, ma quasi sempre ci sono altri fattori come la malattia mentale o la presenza di altre forme di bullismo, come quello faccia a faccia. Il cyberbullismo in genere rientra nel contesto del normale bullismo.

I segnali che possono aiutare un genitore a capire se il proprio figlio è vittima di cyberbullismo sono i seguenti:
– Utilizzo eccessivo di internet.
– Chiudere le finestre aperte del computer quando si entra nella camera.
– Rifiuto ad utilizzare Internet.
– Comportamenti diversi dal solito.
– Frequenti invii attraverso Internet dei compiti svolti.
– Lunghe chiamate telefoniche ed omissione dell’interlocutore.
– Immagini insolite trovate nel computer.
– Disturbi del sonno.
– Disturbi dell’alimentazione.
– Disturbi psicosomatici (mal di pancia, mal di testa, ecc).
– Mancanza di interesse in occasione di eventi sociali che includono altri studenti.
– Chiamate frequenti da scuola per essere riportati a casa.
– Bassa autostima.
– Inspiegabili beni personali guasti, perdita di denaro, perdita di oggetti personali.

Il cyberbullismo non caratterizza solo gli adolescenti, purtroppo anche gli adulti risentono di tale fenomeno, in particolare sul luogo di lavoro. Uno studio, che ha coinvolto ricercatori della University of Sheffield e della Nottingham University, ha evidenziato come su 320 persone che hanno risposto al sondaggio del loro studio, circa otto su dieci aveva vissuto comportamenti di cyberbullismo almeno una volta negli ultimi sei mesi. I risultati hanno anche mostrato che un 14-20 per cento li ha vissuti almeno una volta alla settimana, con un’incidenza simile al bullismo tradizionale.

Bullismo & omofobia

Il bullismo omofobico consiste nella messa in atto di comportamenti violenti ai quali una vittima viene ripetutamente esposta. Questi comportamenti sono l’esclusione, l’isolamento, la minaccia, gli insulti e le aggressioni da parte del gruppo dei pari, dove gli aggressori o “bulli” si servono dell’omofobia e del sessismo come arma di attacco. La vittima sarà squalificata e de-umanizzata. Si tratta di contesti in cui possono trovarsi i giovani gay, lesbiche, transessuali o bisessuali, ma anche qualunque persona che sia recepita o rappresentata fuori dai modelli di genere “normativi” (Platero e Gomez, (2007). Herramientas para combatir el bullying homofóbico).

Nella cornice omofobica l’omosessualità diviene un qualcosa da denigrare, e questo viene fatto attraverso varie forme di violenza perpetrate nei confronti delle persone omosessuali: i tipi di comportamento adottato variano dalle aggressioni fisiche (spinte, calci, mozziconi di sigarette spenti sul corpo) fino all’esclusione sociale, che in diversi casi si è dimostrata più efficace di quella fisica (Rivers e Smith, 1994).

Secondo Lingiardi (2007) è possibile individuare 3 caratteristiche distintive del bullismo omofobico:
1. Le prepotenze chiamano in causa una dimensione specificatamente sessuale, perché l’attacco è rivolto più alla sessualità che alla persona in sé;
2. Una maggiore difficoltà a chiedere aiuto per la propria omosessualità, perché essa richiama intensi vissuti di ansia e vergogna;
3. Il bambino vittima trova con difficoltà figure protettive: infatti “difendere un finocchio” comporta il rischio di essere considerati omosessuali
(Rivers, I., e Smith, P.K. (1994). Types of bullying behaviour and their correlates. Aggressive Behavior, 20 (5): 359-368; Lingiardi, V. (2007). Citizen gay. Famiglie, diritti negati e salute mentale. Milano: il Saggiatore).

Le maggiori conseguenze dovute dalla discriminazione sessuale sono la riduzione delle opportunità individuali, sia in campo scolastico che lavorativo, e la riduzione della dignità (D’Ippoliti e Schuster, 2011). In altre parole, la discriminazione può portare a vivere la scuola con disagio, aumentando l’insicurezza personale e relazionale, con mancato proseguimento degli studi e maggiore difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro. La discriminazione omofobica portata avanti da scuola e società espone gli omosessuali a un maggior rischio di disturbi dell’umore e consumo di sostanze quali nicotina, alcool e marijuana: ammonta a un terzo il numero dei giovani omosessuali che si tolgono la vita ogni anno, con una frequenza dei tentati suicidi doppia, e la causa è spesso da attribuirsi alla stigmatizzazione sociale (Barbagli e Colombo, 2001) (D’Ippoliti, C., e Schuster, A. (2011) DisOrientamenti. Discriminazione ed esclusione sociale delle persone LGBT in Italia. Roma: Armando Editore; Barbagli, M., e Colombo, A. (2001). Omosessuali moderni – gay e lesbiche in Italia. Bologna: Il Mulino).

Perché si diventa bulli? Perché si diventa vittime?

Ma cosa induce un soggetto a comportarsi da bullo? E di contro, cosa determina che un soggetto sia vittima di episodi di bullismo?

Una serie di studi ha messo in luce che un buon concetto di sé aiuta bambini e ragazzi a ottenere dei successi, sia a livello relazionale che di rendimento scolastico (Marsh e all., cit. in Camodeca, 2008).

Per concetto di sé si intende la teoria che ognuno sviluppa riguardo a se stesso; si riferisce alla percezione e alla cognizione delle proprie caratteristiche, alle credenze riguardo se stessi, le capacità, le impressioni, le opinioni che ogni individuo pensa di avere  e che lo contraddistinguono dagli altri (Damon e Hart, 1982).

Il Concetto di sé è stato sovente affiancato al costrutto di Autostima, ma si tratta di due concetti ben diversi: il concetto di sé si focalizza sugli aspetti cognitivi del sé, su come ci si vede e ci si descrive nei vari ambiti della vita; l’autostima riguarda gli aspetti valutativi del sé, il valore che attribuiamo a noi stessi.

Tornando alla possibile relazione esistente tra condotte di bullismo e immagine di sé, una ricerca condotta nel 1998 ha messo in luce che un basso concetto di sé conduce alla vittimizzazione e che l’effetto di eventuali fattori di rischio è maggiore nei soggetti che hanno un basso concetto di sé e che si sentono inadeguati.

Ulteriori ricerche hanno indagato il concetto di sé in quei bambini e ragazzi che utilizzano condotte aggressive. E pare che questi mostrino un elevato concetto di sé, ma in realtà ciò non denota una buona immagine di sé, piuttosto un senso di narcisismo e un tentativo di sembrare ciò che non  si è. Nel caso dei bulli, per esempio, sembrerebbe che il comportamento prepotente da essi attuato sia efficace a fargli guadagnare potere, ammirazione e attenzione e, in questo modo, migliorare poi l’immagine di sé (Marsh e all, 2001).

Autostima e bullismo

Pare che anche il valore e la stima che attribuiamo a noi stessi possano in qualche modo avere un suo peso nei fenomeni di bullismo. Ma relativamente alla relazione tra autostima e bullismo, i dati forniti dalla letteratura appaiono in parte contraddittori.

La maggior parte degli studi condotti nel settore si trova concorde nel sostenere che i bambini vittime di bullismo soffrono di scarsa autostima, hanno un’opinione negativa di sé e delle proprie competenze (Menesini, 2000).

Capita infatti molto spesso che i bambini tiranneggiati dai compagni mettano in dubbio il proprio valore, precipitando in stati di ansia e frustrazione.

Essi talvolta diventano anche un obiettivo di attrazione per il bullo, in quanto non sanno come affrontarlo. Tendono a vedere sconfitte temporanee come permanenti e molto frequentemente accade che qualcun altro (psicologicamente più forte) prenda su di loro il sopravvento.

A differenza delle vittime, i bulli appaiono spesso caratterizzati da un’alta autostima. Sembrano molto ottimisti, e riescono quindi a gestire molto più facilmente i conflitti e le pressioni negative, ed è per questo motivo che riescono facilmente a coinvolgere dei seguaci nelle loro azioni di prepotenza (Menesini, 2000).

Una ricerca di Salmivalli del 1999 ha indagato l’autostima a 14 e 15 anni e i risultati hanno evidenziato che i bulli hanno un’autostima più alta della media, combinata a narcisismo e manie di grandezza.

Un ulteriore studio condotto da Caravita e Di Blasio ha evidenziato che i bulli sono solitamente dei soggetti popolari, e ciò ha portato le autrici a ipotizzare che la popolarità potrebbe condurre ad un innalzamento dell’autostima e all’adozione di condotte aggressive, in quanto il soggetto non avrebbe alcun timore di confrontarsi o di essere sanzionato dal gruppo di pari (Caravita, Di Balsio, 2009).

Comunque questi dati sono stati più volte smentiti, in quanto il fatto che i bulli percepiscano se stessi come ben visti non vuol dire che essi realmente lo siano. Spesso accade che le persone che hanno un comportamento da bullo si mostrano come superiori e potenti, ma in realtà essi non pensano questo di se stessi. Potrebbe accadere che i bulli usino il comportamento aggressivo solo al fine di spaventare gli altri bambini, e non perché vogliono essere rispettati (Randall, 1995).

Uno studio condotto su ragazzi di 12 e 13 anni ha messo in luce che in realtà i bulli non sono molto popolari, anche se sono sicuramente più popolari rispetto alle vittime (Salmivalli, 1996).

Luthar e McMahon (1996) pensano che la popolarità tra i pari sia collegata sia alla prosocialità che al comportamento aggressivo in adolescenza. I bambini aggressivi (bulli inclusi) tendono a sovrastimare le proprie competenze, e i bambini che sovrastimano la loro accettazione sociale sono spesso quelli più nominati dai loro pari come aggressivi.

I dati che supportano l’asserzione che i bulli hanno una positiva percezione di sé, ritengono che essa è spesso inconsistente. Per esempio Salmivalli (1998) ha trovato nei bulli un’alta autostima per quanto riguarda le relazioni interpersonali e l’attrazione fisica, ed una bassa autostima per quanto riguarda l’ambito scolastico, quello familiare, quello del comportamento e quello delle emozioni (Salmivalli, 2001). È ciò che si verifica ad esempio quando il bullo è grande e forte ma colleziona continui insuccessi scolastici (Oliverio Ferraris, 2006). Dal medesimo studio è emerso anche che le vittime hanno bassi punteggi in quasi tutti gli aspetti dell’autostima. Vi sono comunque soggetti vittimizzati che hanno dimostrato di possedere una buona stima di sé, soprattutto in ambito familiare.

Un ulteriore studio ha investigato due ipotesi: un’alta autostima porta i bambini a mettere in atto pensieri antisociali (ipotesi dell’attivazione); un’alta autostima porta i bambini a razionalizzare le condotte antisociali nei loro confronti (ipotesi della razionalizzazione). I risultati supportano pienamente la seconda ipotesi, e solo in parte la prima. Ciò appare da un lato positivo, in quanto emerge che quei bambini che presentano un’alta autostima, pur non essendo molto popolari, riescono bene a razionalizzare le condotte antisociali. D’altro canto però, per quei bambini che hanno una tendenza verso l’aggressività, l’avere un’alta autostima potrebbe presentare un problema, in quanto contribuirebbe ad aumentare le loro condotte antisociali (Corby, Hodges, Menon, Perry, Tobin, 2007).

Ciò comunque non sempre è vero. L’avere un’alta autostima in preadolescenza gioca un ruolo molto limitato nello sviluppo di comportamenti violenti in età adulta (Boden, Fergusson, Horwood, 2007).

Una ricerca condotta da Marsh nel 2001 ha messo in luce che i fattori di aggressività scolastica e quelli di vittimizzazione sono associati a tre componenti del sé: autostima generale, relazioni con lo stesso sesso e relazioni con l’altro sesso. Più nel dettaglio, la vittimizzazione correla negativamente con il concetto di sé ed ha effetti negativi sullo sviluppo dell’autostima. Per quanto riguarda l’aggressività, essa correla ugualmente in modo negativo con il concetto di sé, e ha pochi effetti positivi sullo sviluppo dell’autostima. Un basso concetto di sé può quindi condurre a un comportamento aggressivo e alla vittimizzazione, e può successivamente avere conseguenze sullo sviluppo dell’autostima. Tali esiti sono indipendenti dagli effetti di genere (Marsh et al. 2001).

Bullismo in età adulta

Il bullismo è un fenomeno che spesso viene associato esclusivamente all’infanzia e all’adolescenza, ma questa non è la realtà. Purtroppo questa forma di violenza si protrae anche nell’età adulta, in particolar modo in quegli spazi che caratterizzano la quotidianità di un adulto come il luogo di lavoro. Tra le forme più diffuse di bullismo sul lavoro è possibile trovare il mobbing, ovvero un’aggressione piscologica e morale, reiterata nel tempo da parte di più aggressori, i quali agiscono nei confronti della vittima con l’intento di nuocere alla salute della stessa. Secondo Heinz Leymann, sono 5 le condizioni che non possono mancare per parlare di mobbing:

  1. Un’aggressione
  2. Protratta nel tempo
  3. Che tende ad aumentare d’intensità
  4. Associata alla percezione dell’impossibilità di difendersi
  5. L’effettiva intenzione dell’aggressore di vessare col proprio comportamento e con le proprie azioni la vittima, con il preciso scopo di estrometterla dalla realtà sociale e lavorativa.

Anallizando più a fondo il fenomeno Heinz Leymann, individua inoltre due tipologie principali di mobbing:

  • Il mobbing verticale: viene messo in atto da parte dei datori di lavoro verso i dipendenti per indurli a licenziarsi da soli, schivando così eventuali problemi di origine sindacale.
  • Il mobbing orizzontale: viene messo in atto dai colleghi di lavoro verso uno di loro per varie ragioni: gelosia verso colleghi più capaci, necessità di alleviare lo stress da lavoro oppure per trovare un capro espiatorio su cui far ricadere le disorganizzazioni lavorative.

(Leymann Heinz. The content and development of mobbing at work. European Journal of Work and Organizational Psychology. (1996). 5, 165184)

Una recente indagine sul lavoro in Europa risalente al 2012, segnala che il 14% dei lavoratori europei è stato vittima di comportamenti vessatori sul luogo di lavoro. Tuttavia, è difficile definire un comportamento vessatorio isolandolo dal contesto lavorativo in cui viene messo in atto, ed è proprio per questo motivo che è importante sottolineare che molti dei comportamenti definiti ‘vessatori‘, sono tali perché fanno parte di un disegno più grande, che ha l’obiettivo di ledere la vittima del mobbing sul lavoro.

Per definire la presenza di mobbing, sono infine molto importanti i due parametri di durata e frequenza. Indicativamente, Leymann ha fissato 6 mesi minimi di soglia per potersi riferire al fenomeno. Per quanto riguarda la frequenza dei comportamenti vessatori è importante individuarne la sistematicità, nonostante non sia possibile fissare un indice di occorrenza ben preciso.

Conseguenze a lungo termine del bullismo

Essere vittime di episodi di bullismo da bambini è spiacevole nell’immediato, ma costituisce un fattore che aumenta il rischio di sviluppare diverse tipologie di disturbo oltre che nell’infanzia e nell’adolescenza anche nell’età adulta.
Ciò che numerosi studi hanno evidenziato è che le vittime di bullismo nel passaggio dall’adolescenza alla giovane età adulta continuano a presentare in misura rilevante disturbi quali agorafobia, disturbo d’ansia generalizzato, disturbo da attacchi di panico, dipendenza, psicosi e depressione.

Ciò che invece è ancor meno noto è che non solo essere vittime di bullismo aumenta la probabilità dell’insorgenza di disturbi, ma anche l’essere bulli. Infatti, per coloro che in passato sono stati sia vittime che bulli (una vittima che è diventata a sua volta bullo o che presenta nello stesso tempo comportamenti di bullismo) incorre il rischio di sviluppare disturbi depressivi, disturbi da attacchi di panico, agorafobia (solo nel caso delle femmine) e un aumento di rischio suicidario soltanto in relazione al genere maschile. Per coloro che invece hanno caratterizzato il loro passato esclusivamente con il ruolo di bullo vi sarebbe un maggior rischio di sviluppare un disturbo antisociale della personalità.

AUTORE: Chiara Ajelli

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